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numero collana


Il mulino del consorzio sbuffò fuori una nuvola di polvere giallina. Sospirai ancora. Quella sarebbe stata un’estate di polvere, la mia estate di polvere.

2023

164

 978-88-6810-556-3

14,00

Si


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Sinossi

Nella calda estate del 1976, mentre il Consorzio Agrario macina grano e soffia polvere nell’aria, la piccola Diana Ferri si trova coinvolta nel terribile delitto della bella Regina, operaia nella fabbrica del nonno. Il timore per l’incolumità dei suoi famigliari e la comparsa della “Cosa”, un dono o forse una maledizione, che la fa cadere in trance e disegnare indizi, la spingono a indagare cercando quell’anello che forse risolverà il caso. Mentre l’assassino di Regina continua a uccidere e sul quartiere aleggia l’ombra sinistra di un perfido orco che rapisce bambini, Diana deve fare i conti con un mondo di adulti che spesso si rivelano ben diversi da come appaiono. L’immaginazione le permette di fuggire dalla realtà non sempre gradevole che la circonda, quando però cala la notte le paure strisciano dentro i suoi sogni di bambina riempiendoli di orribili mostri.

L'autore

Primo capitolo

1

Quel tardo pomeriggio di fine giugno faceva caldo e Lilli, il mio cane, se ne stava sdraiata per terra ansimando con la lingua penzoloni. I suoi grandi occhi castani seguivano con attenzione l’andirivieni di Enos dal cortile al magazzino.
Un grande camion rosso aveva da poco terminato di scaricare sull’asfalto ruvido una ventina di casse contenenti setole cinesi e le setole, che fossero di maiale, cinghiale, martora o sintetiche, erano la materia prima per la produzione di pennelli.
Sul legno chiaro c’erano stampati a fuoco dei curiosi segni neri che sembravano disegni, ma in realtà erano parole e frasi in un’altra lingua. Si chiamavano ideogrammi e avevano quasi lo stesso fascino dei geroglifici egiziani.
Con le mani protette da logori guanti da lavoro Enos caricava le casse su un carrello a due ruote e le trasportava dentro il magazzino, dove le sistemava ordinatamente contro la parete di fondo del locale.
Enos era un omone grande e grosso dalla folta barba nera e dai capelli ricci. Mi ricordava tanto un orso bruno, uno di quei grizzly che avevo visto in un documentario sugli animali del nord America. Aveva spalle larghe, leggermente spioventi, e braccia muscolose, ma sgraziate, sproporzionate rispetto al resto del corpo. Le mani erano grandi e callose perché aveva iniziato a lavorare presto per aiutare la sua famiglia. Indossava sempre una tuta blu macchiata d’olio e colla e grossi scarponi di cuoio nero.
Posata l’ultima cassa si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte e sbirciò l’orologio. Da lì a poco sarebbe suonata la sirena della fabbrica che annunciava il termine della giornata lavorativa. Lo aspettavano una bella rinfrescata con l’acqua gelida del pozzo di casa e un’abbondante piatto di pasta con il ragù. Poi se ne sarebbe andato al bar come ogni sera, a bere grappa, a giocare a briscola e a guardare la Rosatea che gli sorrideva da dietro il bancone.
Non si era mai sposato nonostante avesse già trentasette anni perché non voleva lasciare sola l’anziana madre. Con lei viveva in una piccola casa ai margini della frazione di Villa Sesso, sulla Statale 63.
Veniva al lavoro con una vecchia Moto Guzzi Alce, un catorcio della seconda guerra mondiale che suo padre aveva trovato abbandonata in un fosso lungo la strada per Cadelbosco crivellata di proiettili quando i tedeschi se ne erano andati. Dopo essere rimasta per anni dimenticata dentro una cantina, Enos l’aveva ripulita e rimessa in funzione sostituendo diversi pezzi e rivelandosi un ottimo meccanico. Aveva un sellino di pelle marrone, screpolata e rigida, un serbatoio oblungo e quel manubrio basso che lo costringeva a stare piegato in avanti mentre la guidava. Quando la metteva in moto raschiava forte come un vecchio che si prepara a uno sputo e rombava sorda quando dava gas, per poi scattare veloce in una nuvola di fumo bianca. Era il suo piccolo, unico, inestimabile tesoro.
Enos mi gettò un’occhiata di traverso e con l’indice indicò perentorio l’uscita. Saltai giù dalla cassa su cui ero seduta a gambe incrociate e tallonata da Lilli andai in cortile. Lui mi seguì col suo passo pesante, chiuse la porta del magazzino facendo scorrere il lungo chiavistello di ferro dentro gli anelli, fino in fondo.
Fu allora che udimmo un rumore basso e sordo provenire da sotto la grande tettoia di pannelli di ondolux gialli e verdi, un rumore famigliare, ma inconsueto per quell’orario.
— Ma che cazz… — mormorò tra i denti. Si precipitò in quella direzione con me e Lilli incollate dietro.
Il grande forno in muratura era acceso. Si trattava di un parallelepipedo di cemento grigio con l’apertura sulla sommità. Corse a staccare da un gancio la pulsantiera dei comandi che era collegata al forno da un tubo di gomma nero dentro il quale correvano tutti i cavi elettrici.
Pigiando forsennatamente sui tasti colorati e imprecando spense tutto. Nessuno era autorizzato ad accenderlo tranne lui.
Armeggiò ancora con i comandi e le ante metalliche in cima si aprirono lasciando fuoriuscire una nuvola di vapore bianco e un odore terribile che impestò l’aria tutt’attorno.
— Mamma che puzza — feci tappandomi con le dita il naso.
Enos, sempre utilizzando la pulsantiera, azionò l’argano già posizionato sulla bocca del forno. Il gancio scivolò giù e si udì un ‘clang’ secco quando agganciò il metallo.
Con abilità, riavvolse lentamente la catena che sollevò dall’interno del forno una cesta di metallo dalle maglie quadrate grondante acqua bollente.
Solitamente quella cesta conteneva le setole di maiale che venivano bollite e sterilizzate per agevolarne la lavorazione, ma ora era maledettamente pesante e la catena strideva orribilmente nello sforzo di tirarla su. Dentro c’era qualcosa di grosso, ripiegato su se stesso. Sembrava un cane addormentato.
Lilli s’ irrigidì e cominciò ad abbaiare.
Enos spalancò la bocca e un verso rauco gli graffiò la gola. Bloccò la cesta a mezz’aria. Poi la sua mano scattò veloce, mi coprì gli occhi e mi afferrò per un braccio trascinandomi in cortile di peso.
— Aldina, Aldina — urlò e la sua voce sembrava un tuono, presagio di un sinistro temporale che si sarebbe abbattuto su tutti noi.
Quasi mi scaraventò tra le braccia dell’operaia uscita da uno dei magazzini che si affacciavano sul cortile.
— Che succede?
— Tieni la bambina.
Si precipitò su per le scale, in direzione degli uffici.
— Che succede? — chiese nuovamente l’Aldina.
— Hanno bollito un cane nel forno.
Lei mi guardò sconcertata. — Che stai dicendo? Che cane? Poldo dorme sotto il mio tavolo da lavoro e Lilli sta abbaiando come una matta.
In verità più ci pensavo più c’era qualcosa di strano. Sgusciai via dalle braccia di Aldina. Quella cosa a guardarla meglio forse non era proprio un cane.
L’Aldina che mi era corsa dietro non appena alzò gli occhi e vide la cesta sospesa con quella roba dentro sgranò gli occhi e cominciò a urlare.
No che non era un cane.
Era una persona.