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numero collana


Anche quando la cercava, la morte non si faceva trovare.
Era proprio vero che i desideri si avverano solo se uno si dimentica di loro.

maggio 2024

350

978-88-6810-578-5

18,00

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Sinossi

Una talentuosa pittrice viene trovata dal marito assassinata nella propria abitazione. Il corpo della vittima, avvolto solo da un accappatoio bianco, presenta numerose lesioni inferte con un’arma da taglio. Indaga sul caso Nico Alpi, capo della sezione omicidi della Squadra Mobile di Roma. Da un lato, dovrà combattere contro sé stesso, spinto da pensieri suicidi e spaventose allucinazioni. Dall’altro, dovrà stanare un inafferrabile assassino, con uno sviluppo delle indagini serrato, carico di suspense e di colpi di scena, dove nulla è come sembra. Un assassino così inafferrabile che anche lui potrebbe essere un’allucinazione. La figlia di Alpi si è da poco suicidata e i sensi di colpa lo avvelenano provocandogli problemi di insonnia, accompagnati da allucinazioni in cui bestie sofferenti e ferite sembrano minacciarlo. Il viaggio alla scoperta di questi animali misteriosi lo condurrà in via del tutto casuale (o chissà, forse no) ai Bestiari medievali. Una lettura che lo cambierà profondamente, facendo emergere in lui un forte sentimento di comunione con il regno animale. Un’illuminazione o un’esperienza mistica (se non un delirio della fantasia esaltata) che lo indurrà a interpretare le allucinazioni in chiave simbolica per cercare di venire a patti con i sensi di colpa, inventando una sorta di Bestiario privato.

L'autore

Primo capitolo

1

Ringhiava rabbioso. Il cane affondava i denti aguzzi nel fascio di luce. La torcia gli illuminava il muso, facendone risaltare gli occhi pazzi d’ira. Lui avrebbe voluto fuggire, ma i piedi rimanevano incollati per terra. Se si fosse mosso la bestia gli avrebbe sbranato il cuore. L’unica possibilità era quella di accecarla con la torcia, per ritardare almeno la fine. Ma il tremolio della luce, sotto lo sforzo prolungato di mantenere la mano ferma, aumentava. Stringeva l’impugnatura della torcia con una forza disperata, fino a farsi male, e il dolore risaliva dalla mano lungo il braccio teso fin sulla spalla, con delle fitte acute. Ormai non mancava molto al momento in cui sarebbe stato costretto ad abbassare la torcia. Quando il tremore divenne incontrollabile chiuse gli occhi.

— Ventrella, spegni quella cazzo di torcia! Non vedi che l’hai puntata sugli occhi del dottore? — disse l’assistente Raffaele Di Vico, facendo tornare in sé il vicequestore aggiunto Nico Alpi, capo della sezione Omicidi della Squadra Mobile di Roma.
Alpi annaspò nel tentativo di apparire il più possibile normale. Prima dell’arrivo a casa sua della volante, si era scolato il fondo di una bottiglia di gin. Ma non era bastata a combattere il male che ogni volta lo attraversava al ricordo di Aurora, sua figlia. Senza volerlo si era ritrovato dentro una delle sue allucinazioni. Tutto era cominciato dopo la morte di lei. L’insonnia. Gli improvvisi attacchi di sonnolenza che si verificavano più volte nell’arco di una giornata e in qualsiasi momento. Era trascorso solo un mese e quasi subito si erano manifestate le allucinazioni. Si era fatto l’idea che fossero una specie di fuga dalla realtà, un diversivo per non ricordare. Quando il dolore diventava insopportabile la sua mente si rifugiava in uno stato della coscienza in bilico tra il sonno e la veglia popolato da bestie spaventose. Non aveva scelta, volente o nolente doveva assistere a quelle immagini terrificanti.
Con la scusa di esaminare la scena del crimine si allontanò dagli agenti trascinando i piedi. Non aveva l’aria del poliziotto. Era alto, con la barba trasandata e i capelli folti, a stento trattenuti dalla cuffietta contenitiva obbligatoria per chi si muoveva sulla scena del crimine. Con gli occhi spalancati, di un azzurro liquido, sembrava alla ricerca di un particolare punto di osservazione nell’ampio soggiorno. Di morti ammazzati ne aveva visti abbastanza, eppure esitava ad avvicinarsi al cadavere. Il contatto con la morte lo riportava con il pensiero all’immagine del corpo inerte a terra della figlia. Cercò di concentrarsi sull’ambiente circostante. Era arredato con mobili di antiquariato mescolati con complementi più moderni e contemporanei. Riviste e libri d’arte occupavano gli scaffali della libreria ed erano anche sparsi in giro, sopra i mobili. Le pareti erano tappezzate di dipinti di grandezza diversa. La firma, in basso a destra, era sempre la stessa: Morra. Si trattava di immagini realistiche di atmosfere urbane, notturne, senza nessuna forma di vita tranne la figura di una bambina. La stessa bambina ripetuta in ogni quadro, in vestaglia da notte, a piedi nudi, con una candela accesa in mano, ritratta mentre vagava in esplorazione di angoli di città in degrado, tra edifici fatiscenti e rovine. I dipinti parlavano di paura, solitudine, ma anche della forza di sopravvivenza di una giovane innocente in un mondo contaminato. Il senso del dovere o forse la bambina raffigurata nei dipinti, che attraversava senza paura l’oscurità di una città fantasma, gli infuse il coraggio per esaminare la vittima. Si trattava di una bella donna, non più giovane, sulla cinquantina. Il pallore della pelle, la fissità degli occhi neri e la fragranza degli odori che emanava davano l’illusione che fosse stata imbalsamata da poco. Anche se i lineamenti delicati del viso stonavano con la stoffa lacerata e zuppa di sangue dell’accappatoio bianco, l’unico indumento che indossava. Il corpo presentava numerose lesioni inferte con un’arma da taglio. Del sangue era colato sul pavimento formando un piccolo lago rosso. L’assassino non si era limitato a uccidere la vittima. Senza accorgersene indietreggiò di un passo, quasi scontrandosi con un agente della scientifica che, incappucciato in tuta bianca, stava scattando delle foto ai reperti probatori. Recuperato l’equilibrio, si costrinse a rivolgere ancora una volta lo sguardo verso la donna. Per lui la scena del crimine rappresentava il tramite inconsapevole, simbolico, del messaggio dell’assassino al mondo. Si trattava ogni volta di una specie di lettera solo che il postino era un cadavere. Passò in rassegna gli elementi che aveva. La brutalità dell’omicidio e l’ambiente domestico indirizzavano l’indagine verso il movente passionale. L’assenza di segni d’effrazione suggeriva che l’assassino godeva della fiducia della vittima. Lei era sola in casa e, ciononostante, aveva fatto entrare qualcuno in tarda serata, mentre si stava preparando per la doccia. Quindi doveva trattarsi di una persona appartenente alla cerchia familiare oppure di un amico molto intimo, magari un amante. Questo restringeva notevolmente il campo dei sospettati. Quante volte aveva dovuto assistere alle storie di amori degenerati e morbosi, dove vita e morte si scambiavano i ruoli. Ti uccido perché tu continui a essere mia e di nessun altro. Ma era andata davvero così? Non era convinto che si trattasse di un omicidio in ambito domestico. Percepiva l’assenza di un elemento essenziale sulla scena del crimine, anche se non riusciva a metterlo a fuoco. In quello che vedeva c’era qualcosa che non tornava con l’ipotesi del movente passionale. Si concentrò sull’arredamento del soggiorno e capì cosa mancava: il caos. C’era troppo ordine, o meglio c’era un disordine normale. Nessun mobile fuori posto, nessun oggetto rovesciato sul pavimento, nessun segno di lotta o di violenta colluttazione. Niente di niente. Sembrava un raptus omicida “controllato”, talmente fulmineo e inatteso, che la vittima non aveva avuto la minima possibilità di difesa. Solo il tempo di chiudere gli occhi prima di consegnarsi a una morte feroce. Proprio come nell’allucinazione che aveva appena avuto. Era possibile che l’assassino fosse entrato nell’appartamento con l’intenzione di uccidere e avesse tenuto sotto controllo la sua furia fino al momento in cui aveva potuto scatenarla senza lasciare scampo alla vittima. Forse si trattava di omicidio premeditato. Non era avvenuto in un attimo di follia, durante una discussione troppo accesa. Tentò di immedesimarsi nell’assassino. Chissà quale azione o frase della donna poteva aver innescato l’attacco omicida. Probabilmente era bastato anche solo un gesto, come nella sua allucinazione, quella piccola oscillazione della mano sufficiente a spostare la luce della torcia dagli occhi del cane. Si lasciò trasportare con l’immaginazione dal vortice di sensazioni della vittima mentre si consumava il suo ultimo istante di vita. Grido che si strozza in gola. Occhi che si chiudono. Respiro rotto dalla paura. Tamburo nel petto che batte sempre più forte. Torrente di sangue in piena. Lama che penetra nella carne, nelle vene, nelle arterie. Denti che si stringono. Schiena che si curva. Mani che cercano qualcosa a cui aggrapparsi nel vuoto. Occhi che si riaprono per riflesso condizionato. Cervello che si rifiuta di morire. Scarica di adrenalina. Pressione arteriosa che s’impenna. Cuore che smarrisce il ritmo. Poi più nulla.
Venne ricondotto bruscamente alla realtà da una voce conosciuta. Si era avvicinato a lui l’ispettore capo Eva Morali, con una smorfia di disgusto sul volto.
— Un vero macello. Chiunque sia stato, voleva essere certo che la donna fosse morta. Se vuoi sapere come la penso, si tratta di un delitto passionale.
— Non ti ho chiesto come la pensi, Eva.
— Qualche volta vorrei poter leggere nei tuoi pensieri, Nico.
— Scopriresti che ognuno ha un’area della vita compresa nel perimetro sacrosanto dei cazzi suoi. Piuttosto si sa niente dell’arma del delitto?
— Forse l’abbiamo trovata. Nascosta in un ripostiglio, in una scatola con altre posate, abbiamo rinvenuto un grosso coltello compatibile con le ferite riportate sul cadavere. Il coltello è stato ripulito, ma la scientifica ha rilevato delle tracce di sangue e deve verificare se siano della vittima o meno. Il marito, Alberto Morra, sostiene di non aver mai visto quel coltello, ma non può escludere che sia stata la moglie, Elisa Pagani, a metterlo lì.
Nei delitti tra famigliari la scelta dell’arma di solito ricade su un oggetto domestico, apparentemente innocuo, come ad esempio un coltello per sminuzzare le cipolle. Tuttavia, l’arma del delitto non è il coltello o qualsiasi altro oggetto usato per uccidere: è la mente dell’assassino. Era questo che l’assassino voleva far credere agli investigatori, che si trattava di un delitto domestico?
— Controllate la provenienza del coltello, verificate se qualcuno della famiglia possa averlo acquistato. Chi l’ha trovata, il marito?
— Sì, quando è rincasato dal lavoro ha trovato la moglie in quello stato.
— Manca niente in casa?
— Da un primo controllo del marito sembrerebbe di no.
Se si trattava di un omicidio premeditato del marito c’erano troppi errori. Non avrebbe dovuto trovarla lui e non avrebbe dovuto nascondere l’arma del delitto in casa in modo così maldestro. In pratica Morra si stava autoaccusando, anche se nelle “prime volte” di chi uccide c’è sempre un margine di errore.
— Ne ho abbastanza per stasera.
Alpi si sfilò gli indumenti di protezione monouso e aggiunse con sorriso: — Qui basti tu.
— Un’ultima cosa, Nico — insistette lei prendendo una pausa per formulare con cura la frase. — Ci sarebbero anche le due figlie. La più grande, Valeria, è a Londra e ancora non sa nulla. Il padre la contatterà domani mattina per informarla prima dei giornali e chiederle di anticipare il rientro. L’altra figlia, una minorenne di nome Elisa, come la madre, era invece a casa di un’amica.
— Aspettiamo pure l’arrivo della figlia maggiore dall’estero, la sentiremo dopo. L’altra per ora non è il caso di interrogarla.
Non riuscì a evitare di chiedersi quali fossero state le ultime parole delle figlie alla madre. Forse non c’era stato nessun arrivederci, o peggio ancora un cattivo arrivederci. Era la condanna dei sopravvissuti. Dover convivere con quella insopportabile convinzione che qualcosa poteva essere fatto per evitare la morte di un caro. Lui era stato privato di una figlia. Si era iniettata una overdose di eroina. Una punizione che lei si era autoinflitta e che lui aveva ereditato. La moglie, dopo la morte di Aurora, lo aveva lasciato. Si era messa con un altro. Per fortuna non è un poliziotto, gli aveva detto lei. Come se la colpa di quello che era successo fosse del lavoro che faceva. Quando uscì dall’appartamento stracciò i pensieri tristi e tornò a concentrarsi sull’omicidio. C’era qualcosa, suscitato forse dai quadri di bambine o dall’allucinazione che aveva avuto, non sapeva dire bene, che l’inquietava. Qualcosa dentro di sé gli diceva che non sarebbe stato un caso come gli altri.