
numero collana
Le porte del bus si aprirono, Van Gogh salì porgendo il braccio a una signora anziana che gli sorrise grata per l’aiuto galante.
Fu inghiottito nel marasma dei corpi stretti delle persone considerate socialmente normali.
Delle brave persone. E lui? Era solo un criminale. No, forse no.
Linea quattordici A, Massarenti-Pilastro.

aprile 2025
210
9788868105983
16,00
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Sinossi
Il commissario Gargano della questura di Bologna è ancora incastrato nella comica e inusuale convivenza con Lello, Ciccio e Riccardo, tre intellettualoidi e stravaganti universitari dalle usanze fricchettone.
Una dottoressa uccisa, una psicologa alle prime armi e una complessa fila di briciole da seguire, accompagneranno Gargano nella soluzione di un caso considerato chiuso sin dall’inizio.
A casa però non è tutto tranquillo, un problema con il vicino del piano di sopra costringerà i regaz e il commissario a intervenire per riportare la calma nel palazzo, finendo per accogliere un nuovo personaggio nella loro strampalata famiglia.
In una Bologna giovane e libertina, la terza avventura del nostro commissario divorziato e disilluso, che convive con tre studenti alternativi, sognatori e ribelli. Spaccati comici e situazioni surreali saranno terreno fertile per un confronto tra due generazioni diverse e lontane, ma che forse hanno ancora qualcosa da dirsi.
Primo capitolo
1
Ancora venti minuti all’atterraggio, venti minuti di questo bambino piangente in preda a una probabile possessione aerea. La madre è così consumata che non sa più cosa fare, fissa il vuoto affogando nell’imbarazzo e nella stanchezza. Il padre, di tutt’altra filosofia, dorme come un marinaio ubriaco, resta a me ignota la sua totale immunità acustica alle frequenze moleste del pargolo. Una signora sulla cinquantina lancia sguardi scocciati e supponenti, come se il suo inutile sbuffare potesse migliorare le cose, mi sta già sul cazzo e nemmeno la conosco. Ho un post sbornia che non lascia scampo, le tempie pulsano e il retrogusto amaro di gin tonic mi impasta la bocca. Inizio a non tollerare più gli annunci del personale di volo, parlano male e forte, quel genere di bilinguismo sul vorrei ma non posso. La voce esce sporcata dagli altoparlanti trapanandomi il cranio. Vogliono rifilarmi sigarette, alcolici e fragranze afrodisiache, il tutto a vantaggiosi prezzi sdoganati. Ultima opportunità, alla fine cedo. Mi lascio tentare da un litro di profumo da macho, lo prendo solo perché puzzo di disagio. Allaccio la cintura, siamo sempre più bassi. Il vuoto d’aria mi solletica lo stomaco, sento un residuo alcolico risalire le pareti dell’esofago, ho bisogno di un antiacido forse. Vedo i colli alla mia destra, San Luca e le due torri, dall’altro lato i campi coltivati della bassa e la pianura che si perde fino all’orizzonte. Siamo arrivati, siamo a Bologna. L’impatto col suolo è rapido e indolore, un applauso all’italiana gonfia con gratitudine l’ego del comandante, è ora di scendere. Ci chiedono ingenuamente di essere ordinati e di uscire scorrendo una fila alla volta, poveri illusi. Tutti in piedi, frenetici ma disorientati. Un gregge di capre belanti e impazzite. Le porte ancora chiuse, in trappola. Sembra una festa sull’aereo, manca solo il bancone e la musica. I più prepotenti arrivano alle cappelliere per primi, sgomitano angosciati per tirare giù le valigie fracassandole sulle teste dei meno decisi. Pochi pacifici rimangono seduti aspettando che si diradi la folla di isterici frettolosi. Sono tra quelli, mi godo il lusso di restare al mio posto ancora qualche minuto, non ho la forza di alzarmi, ma devo. Calo di pressione istantaneo, vedo stelline nere dappertutto, mi sento il cervello secco. Ho bisogno di idratarmi e di fare un’abbondante colazione per ristabilire un minimo di equilibrio psicofisico, magari fuori dall’aeroporto, sennò ’sti maledetti mi spennano.
Non dico che fare serata a Barcellona fino a poche ore prima dell’esame possa essere stata una buona idea, ma ormai l’ho fatto. Chirurgia generale, le cose le so, le ho studiate, è la lentezza di ragionamento a preoccuparmi. La Vellini mi incula, quella prof è uno squalo, geniale come medico, ma spietata con noi studenti. Mi concedo cornetto e caffè guardando l’arena dove combatterò il mio duello, l’ufficio della mia carnefice. Sono in ritardo, ma oggi saremo almeno una decina a fare l’esame, c’è tempo. Tempo per la salita, questo fottuto ospedale è in cima a un colle. Metto in bocca una gomma al mentolo, spero mi regali un po’ di quella dignitosa freschezza ormai persa, vane speranze di risultare presentabile. La Vellini mi rimanda al prossimo appello solo guardandomi in faccia, forse dovrei tenere gli occhiali da sole. Ho pure i pantaloni corti. Lei odia i pantaloni corti. Ma io li amo. Meglio mettere un po’ di profumo da macho.
Alessio arranca per la salita, le lenti scure nascondono le occhiaie pesanti e i vizi della nottata, i pantaloni corti lasciano scoperte le gambe pelose, le scarpe sporche di chi è andato a ballare. Qualche saluto, scrocca un pezzo di panino da un collega di studi. Un grappolo di studenti di medicina sosta fuori dall’ingresso, dei ragazzi si accendono una sigaretta sorridenti, una morettina se ne va imbronciata. Con la bocca piena e la faccia stanca gli chiede che stia succedendo. L’amico corpulento risponde mentre si pulisce dalle ultime briciole.
— Niente esame oggi, la Vellini non si è presentata, il custode ci ha detto di tornare a casa.
Alessio quasi si mette a piangere, salvato all’ultimo da un miracolo inaspettato. La provvidenza l’aveva premiato per non aver rifiutato il folle compleanno del suo migliore amico. La Vellini assente, come minimo non capitava da vent’anni, quella lì lavora anche di domenica. Qualche giorno di vantaggio per riprendersi e preparare a modo l’esame non guastava affatto. Abbracciò quell’angelo paffuto dispensatore di buone notizie.
— Via dai maroni, su che devo pulire, andate a casa.
Il custode scacciava gli studenti come sorci agitando la scopa di paglia, spazzava bruscamente le foglie secche e le cicche per allontanarli dal suo raggio d’azione. I pendolari tornarono indietro delusi per l’inutile viaggio, il prossimo bus li avrebbe traghettati alla stazione insieme agli altri dannati. Un paio di tabagisti andarono a fumare una paglia panoramica, altri fecero tappa per una seconda colazione al bar. Alessio camminava leggero, avrebbe dormito per le successive dieci ore, si guardava attorno, di lato e di sopra. Alzando lo sguardo notò qualcosa che lo fece rabbrividire. Il cielo azzurro faceva da sfondo, dai rami delle piante alla base dell’edificio gli sembrava di intravedere una mano, pendente, pallida, inanimata. Non aveva le lenti da vista, si avvicinò per tirare gli arbusti e scuotere le frasche. Qualcosa si muoveva, ancora un paio di strattoni, alcuni curiosi si fermarono a osservare. Un grosso ramo si spezzò rumorosamente. Poi cadde con un tonfo sordo ai suoi piedi. Un corpo. Un cadavere. La posizione innaturale degli arti, gli occhi vuoti e privi della scintilla vitale. Capelli sciolti, ciocche sporche di sangue e materia cerebrale. Alessio rimase paralizzato, le labbra gli tremavano nel tentativo di parlare.
— Cazzo, professoressa Vellini.
Niente esame oggi.