
numero collana
Iniziamo a lavorare e quando dico “iniziamo a lavorare” vuol dire che entra in scena il paziente, come in un teatro si apre il sipario. Per carità voglio solo ricordare che comunque, a parte l’incidente momentaneo dell’uomo trovato morto, questo è un ospedale. È del paziente che noi ci dobbiamo occupare, è lui l’attore principale di questo palcoscenico. Ognuno qui lascia una traccia di sé.

2020
180
12,00
Si
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Sinossi
Alle sette del mattino, mentre va a lavorare, Anita trova un morto. Trovare un morto di prima mattina non è il migliore dei modi per affrontare la giornata! Il tutto si svolge tra il centro di Bologna e San Lazzaro di Savena, in un luogo non luogo come quello di un ospedale. Anita, che lavora nel reparto di radioterapia, segue le indagini della polizia e arriva alla scoperta del colpevole. Protagonisti oltre a Anita ci sono, come vuole la prassi, un commissario di polizia, un sottoposto, uno stagista di giornalismo invadente. Il tutto animato dai colleghi di lavoro e da un chiacchiericcio di sottofondo. Ma non è solo questo. La protagonista intanto vive una vita privata che si scioglie nella trama come auto fiction.
Primo capitolo
1
Dopo avere parcheggiato l’auto, attraverso la stradina che procede rasente il retro dell’ospedale dove lavoro. Al di là di essa c’è un muretto che nasconde una stradina segnata dal solco dei passi. Da lì passano anche altri dipendenti che, come me, parcheggiano dietro gli edifici e, a forza di camminarci sopra, non ci cresce più nemmeno l’erba.
A luglio, alle sette del mattino c’è molta luce e una temperatura gradevole, il cielo oggi è pulito è sgombro da nuvole. Sento il fischio del treno a valle che, a quest’ora, passa dalla Futa in direzione di Firenze. Quando giro l’angolo del muretto, ci sono le siepi rinsecchite per la mancanza d’acqua. Da sotto un folto cespuglio formato da alloro, sorbi e felci, vedo spuntare un paio di scarpe con la punta rivolta verso l’alto. Mi abbasso per osservare meglio. Dopo le scarpe ci sono i pantaloni, ma ne vedo solo un pezzetto, perché il cespuglio ha i rami che arrivano fino a terra e coprono tutto. Li scosto un po’ per vedere cosa c’è sotto e una folata di zanzare, che probabilmente ho disturbato, si alza in volo.
— Oddio qui c’è un morto! No, no, forse è ubriaco. Faccio un salto dallo spavento. Mi sembra proprio morto. Per poco non mi prende un colpo. Anche se lavoro in ospedale, i morti mi fanno impressione lo stesso.
A quest’ora della mattina incontrare un morto non è proprio bello. Non è che un morto s’incontra così, tutti i giorni.
Sotto quel cespuglio non avevo mai visto niente, al massimo qualche bottiglia di birra lasciata dagli operai delle manutenzioni. Mi giro per vedere se arriva qualcuno, così, giusto per capire se quello che vedo io, lo vede anche lui. A volte non so come faccio a raggiungere il posto di lavoro. Diciamo che quando salgo in macchina, l’attenzione e i riflessi si destano, poi quando arrivo in ospedale, il cervello sembra rientrare nella scatola dell’ultimo sonno; il livello di concentrazione cala di nuovo. Quindi prendo un altro caffè.
Ma stamattina sono qui davanti a un uomo che sembra essere morto e intanto io che cosa faccio? Fisso le scarpe e provo a chiamare: “Ehi!”, dico. Niente, sono troppo immobili, forse quelle scarpe lì appartengono a un senzatetto, così come il pezzo di pantaloni che vedo. Ogni tanto qualche soggetto strano capita da queste parti, ma non si infila di certo sotto i cespugli, di solito cercano qualche angolo riparato dell’edificio. Di sicuro c’è che a luglio la notte è fresca, quindi dormire così all’aperto, non è poi così male. Mi allontano perché sono un po’ spaventata, sconvolta. Forse è meglio se vado a chiamare qualcuno, insomma quattro occhi vedono sempre meglio di due.
Nel sotterraneo c’è un bar frequentato dal personale che come me deve prendere servizio. Dal locale proviene un discreto vociare, rumori di tazzine, profumo di caffelatte e vaniglia. Entro. Allungo lo sguardo. Ah, eccolo, è lì, uno degli addetti alla manutenzione, si distingue bene dagli altri per la tuta grigia che indossa. Mi rivolgo a lui perché lo incrocio sempre fuori dall’ospedale. Non mi è nemmeno simpatico, ma è l’unico che a quest’ora può darmi retta. Mi avvicino piuttosto agitata.
— Senti, per piacere, vieni a dare un’occhiata fuori, sotto un cespuglio, credo ci sia un uomo morto.
— Un morto? Mi guarda con il braccio sospeso mentre sta sorseggiando il caffè.
— Mortissimo, è infilato sotto il cespuglio.
Qualcuno che ha origliato la nostra conversazione si gira, altri fanno finta di niente, altri ancora mi guardano incuriositi, ma non si distolgono dal loro cornetto e dal caffè, non c’è nessuno che vuole avere delle beghe.
L’uomo solleva lo sguardo per un attimo, poi ingurgita il suo caffè frettolosamente, rischiando quasi di farselo andare di traverso. Senza ribattere troppo, mentre appoggia la tazzina sul bancone, dice: — Andiamo.
Meno male che mi dà retta.
Percorriamo il pezzetto di strada insieme.
Dev’essere marocchino oppure tunisino, non so, insomma sembra arabo. Sul badge che porta attaccato al collo c’è scritto Ahmed. Non mi guarda più, non parla e non mi rivolge la parola, si vede che parla poco, forse è per questo che non lo trovo simpatico. Procede dritto.
— Dove? — chiede.
— È lì — dico indicando il grande cespuglio. Non è lontano dall’ingresso, facciamo pochi passi e ci siamo.
Lui china la testa da una parte, poi si abbassa, allunga il braccio, afferra una delle scarpe e la scuote leggermente.
Adesso noto che ha una scarpa con la suola consumata.
Ahmed non si è scomposto minimamente nel vedere il morto, fa l’uomo forte lui.
— Dobbiamo chiamare la polizia — dice mentre si rialza.
— Ci pensi tu? Io devo timbrare il cartellino e presentarmi in reparto — dico mentre cerco di andare via. Il presidio di polizia è ubicato presso la portineria, all’ingresso del padiglione principale. C’è un solo poliziotto che assolve i casi che generalmente si presentano all’interno dell’ospedale.
— No, aspetta, scusa, come ti chiami e dove lavori? Lo dici tu alla polizia che l’hai trovato.
Ah, ma allora parla! Eccome se parla.
— Mi chiamo Anita Ferraro, mi trovi nel reparto di radioterapia, piano terra padiglione B. Ci sono solo io che mi chiamo così.
— Lavori in un posto mica tanto allegro — dice Ahmed mentre allarga le gambe per darsi maggiore stabilità. Sfila il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compone il numero della portineria affinché attivino la chiamata per la polizia. Io cerco di defilarmi. Gli lascio il caso in mano ben volentieri, ho i pazienti che mi aspettano, io, lui no.
Corro via più in fretta che posso. Bestemmio in bolognese, calabrese, romano e in tutte le lingue che conosco, perché ho tre punture di zanzare che mi provocano un dolore terribile. Lo so, oggi sarà una giornata difficile, arriveranno i poliziotti, la Scientifica, il fotografo, qualche giornalista, e qualcuno verrà sicuramente a interrogarmi. Ma tu guarda! Proprio a me doveva capitare una rogna del genere!
Intanto, si è fatto tardi. Arriverò di sicuro al lavoro in ritardo e mi scoccerebbe sentirmelo sottolineare. Entro in reparto con il fiatone. Imbocco un lungo corridoio, che è anche la corsia del reparto da cui si accede alle sale di trattamento radioterapico. Alle due estremità vi sono le uscite che portano uno in senologia e l’altro in oncologia. La collega che sarà di turno con me per tutta la settimana si chiama Elvira. Di sicuro mi sta aspettando, si chiederà come mai sono in ritardo. Intanto che aspetta, lo so, si starà rigirando i braccialetti fatti di perline colorate che porta sulle braccia, e si spolvererà un po’ di cipria sulle guance. In ogni sala lavoriamo in due per legge, ma anche per necessità.
Le condizioni fisiche e psicologiche dei pazienti a volte sono precarie e necessita la presenza di più figure professionali. Quindi, io e Elvira questa settimana la trascorreremo insieme.
— Cum êla ch’t î arivè lóng? Com’è che sei in ritardo? — chiede. Infila sempre qualche frase in dialetto bolognese in mezzo all’italiano. Carina lei, quando mi parla in bolognese, e quando lo fa m’incanta.
I dialetti mi piacciono perché danno succo alle parole e le rendono dense di significato. Allora, le spiego perché sono in ritardo.
— Sapessi cosa mi è capitato stamattina! Sotto un cespuglio ho trovato un morto. — E le racconto quello che ho visto. Elvira, per la curiosità, si accende come una lampadina.
— Non mi dire! Ma chi era, non hai notato nient’altro?
— Boh, no. Sai, ho visto solo le scarpe, erano di quelle buone come andavano una volta, scarpe di cuoio cucite a mano, però erano consumate parecchio, la suola era assottigliata e sotto l’alluce di una scarpa fra un po’ ci sarebbe venuto un buco.
— Poveretto. Chissà chi è — dice.
Elvira è una delle colleghe che amo di più, conserva nell’atteggiamento quel non so che d’infantile anche se ha ventotto anni. E troppo giovane, forse, rispetto a me che ne ho trentotto. Farisa, un’altra collega, che ha qualche anno in più di Elvira, le ha appiccicato il nomignolo di Hello Kitty perché arriva al lavoro con una borsa di Hello Kitty e dentro, ci sono gli accessori di Hello Kitty. Insomma la chiamiamo tutti così.
Eccoci finalmente in sala comandi davanti alla lista dei pazienti.
Dalla telecamera, do uno sguardo alla sala d’attesa affollata, prima di chiamare il paziente numero uno.
Arrivano tutti molto presto per evitare il traffico che, dopo le otto del mattino, congestiona le strade di Bologna.
Adesso devo cercare di concentrarmi per essere presente, qui, con il corpo e con la mente, se li lascio staccati, è difficile che possano servire a qualcosa o a qualcuno.
Chiamo al microfono la prima paziente della mattina. È la signora Maddalena che si alza dalla sedia con uno scatto e arriva di corsa, deve andare al lavoro anche lei, nonostante la malattia e la terapia.
Le vado incontro nel corridoio. Capisco che qualcosa di quel che è accaduto là fuori è già trapelato, la notizia del ritrovamento di un cadavere fuori dall’ospedale si è diffusa velocemente.
— Avete sentito che cosa è successo? — dice la signora Maddalena. Si avvicina anche qualcun altro.
La curiosità è forte per tutti. La curiosità spinge spesso le persone a occuparsi di ciò che succede nel mondo, a entrare nei dettagli della vita degli altri, a intraprendere relazioni che avvengono attraverso lo stesso oggetto che suscita la curiosità.
— C’è stato un omicidio — sussurra. E si ferma a parlare con noi.
— Com’è che è stato ammazzato, qualcuno sa niente? — chiede un altro.
Adesso affiggo i cartelloni, con scritto: “Oggi nel parco è stato trovato un morto ammazzato!”. Ma no, dai, fatemi lavorare per piacere.
Non faccio in tempo a fare la terapia a Maddalena che il corridoio sembra diventato Piazza Maggiore nei giorni di festa.
Stamattina, di distrazioni, credo di averne anche troppe, perché mi giro e dico: — Ma guarda chi c’è! E penso. Cosa ci fa qui da noi Giusy, la barista del Bar delle Svelte?
Il Bar delle Svelte si trova sotto casa mia e Giusy è una delle due bariste che lo gestiscono. Da che ho memoria, c’è sempre stato quel bar d’angolo tra via Scipione Dolfi e via Mondino de Liuzzi.
Vedo Giusy aggirarsi con la testa per aria come stesse cercando qualcosa. Saluto Maddalena, la mia paziente curiosona, e le vado incontro. Appena mi vede solleva un braccio per farsi notare. La vedo sbuffare. Mi dice che stamattina ha la prenotazione per fare la mammografia, ma ha smarrito la strada, si è persa insomma, non ha imboccato la porta giusta. Non ho tempo neanche di dire due parole, le indico solo l’ascensore e il piano 3, dove c’è la senologia, poi scappa via. Non mi meraviglio che abbia sbagliato piano, qui è un continuo via vai di persone che sbagliano perché le indicazioni non sono corrette. Tra poco lei e la sua socia Maura, chiuderanno il bar per andare in vacanza. Giuseppina, detta Giusy, è una bella ragazzona, una di quelle donne libere, indipendenti che ricordano un po’ le femministe di una volta. Si allontana con passo atletico, mentre i capelli legati a coda si spostano di qua e di là segnando il passo.