
numero collana
Arriva un momento nella vita in cui gli eventi ti tolgono la maschera che indossi, tuo malgrado.
In quell’attimo terribile la tua vita cambierà per sempre.

2024 nuova edizione
200
978-8868103859
14,00
Si
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Sinossi
Chi è Ivan Slepovich, serial killer che si accanisce a morsi sui corpi delle sue vittime? È un mostro o la vittima della propria storia? O entrambe le cose? Nel tentativo di rispondere a queste domande il romanzo si sviluppa secondo una triplice prospettiva: quella del protagonista, che si racconta in prima persona alla psicologa del carcere, quella della psicologa, che ricostruisce gli ultimi anni di vita del killer e il rapporto che egli ha con due donne alla luce di quanto ha saputo di lui, e quella degli “altri”, la madre e la madre di una delle vittime. L’autrice accompagna il lettore in una sorte di viaggio “dentro” le emozioni, i pensieri e le relazioni di un killer seriale, per arrivare a dirci che “Se c’è calore dentro di te, neppure l’inverno più gelido riuscirà a spegnerlo del tutto, ma se c’è il gelo, neppure l’estate più calda riuscirà a riscaldarti”.
Primo capitolo
18 luglio 1998 - 3°colloquio
Non ricordo quando ho cominciato a sentire il sapore del sangue nella mia bocca.
Forse fu da quella volta in cui mi ruppi un dente mordendo la catena che mi teneva imprigionato in cantina, una lunga catena dalle maglie sottili attaccata al muro con un anello di ferro.
Il sangue mi aveva riempito la bocca con quel suo strano sapore di metallo e io lo avevo sputato via con forza e pieno di paura, chiedendomi cosa sarebbe successo se non si fosse fermato prima che mia madre arrivasse.
Avevo paura di morire per quello stupido dente che mi succhiava il sangue dal cervello…
Poi il dolore aveva cominciato a concentrare l’attenzione su di sé, impedendomi di pensare.
C’era lui e basta.
Io e lui in quel momento, da soli, a scontrarci.
Allora non sapevo quello che so ora sul dolore.
La faccenda dell’amico, ricorda? Quando lei mi disse che il dolore a volte può essere il solo compagno che abbiamo ci ho pensato molto…
In effetti, di amici non ne avevo allora, né ne ho mai avuti in seguito.
Ero solo un ragazzetto di nove anni convinto che avrebbe potuto fare tutto quello che voleva, se solo lo voleva.
Che cosa? Be’, le solite cose: essere bravo a scuola, alzarsi in fretta la mattina per non arrivare sempre in ritardo, pisciare più lontano degli altri lungo il muro di cinta della scuola e tutte quelle balle lì. Le cose che sono importanti a quell’età.
Il guaio era che per me niente era veramente importante, allora.
Più ci penso e meno riesco a ricordare…
C’è un vuoto, sì, un vuoto…
Ma torniamo alla faccenda del sangue, vuole? A un certo punto il dente smise di sanguinare: ci tenevo premuta sopra la lingua e non riuscivo a toglierla di lì, a smetterla di frugare in quel piccolo buco accidentato.
La bocca è terribile non trova? Ogni qualvolta qualcosa lì non funziona la senti più che in qualsiasi altra parte del corpo e ti ci vuole un sacco di tempo ad adattarti al cambiamento, anche se piccolissimo… la lingua torna sempre lì, a cercare di ripristinare le cose.
Così il sapore del sangue lo sentii a lungo e incominciò a piacermi.
O cominciò a piacermi l’idea di poterlo fermare.
Da allora ne ho sentito spesso la sensazione sulla lingua e la voglia di sentirla ancora.
Iniziai a mordere.
Dapprima solo le sponde del mio letto di legno fino a staccarne piccole schegge di vernice che mi si conficcavano in bocca, poi le mie braccia, poi i compagni che osavano scontrarsi con me.
Incominciarono allora a chiamarmi “Lupo”.
Il Lupo… Ci assomiglio davvero, secondo lei, nel carattere? I lupi sono animali veramente belli, sono forti e veloci nei loro attacchi, un attimo prima non ci sono e poi la preda li ha addosso senza aver avuto il tempo di sentirne neppure l’odore nell’aria.
Allora mi piaceva l’idea che mi chiamassero “Lupo”: li tenevo a bada così.
Mi stavano tutti lontani ma ero io a tenerceli. Se solo lo avessi voluto sarei stato il migliore, il più forte, e in un certo senso lo ero perché le regole me le facevo da me. Non creda che non ne avessi; a un certo punto ero pieno di regole: c’era quella di alzarsi con il piede destro la mattina, di ascoltare Elton John prima di andare a scuola, di camminare a un passo dal marciapiede senza voltarmi se qualche macchina mi suonava alle spalle, di non lasciare che nessuno toccasse le mie cose o che mi toccasse per sbaglio.
C’era la regola di non stare alle regole, se non quando le decidevo io.
In prima elementare fui bocciato perché non accettavo di fare quasi nulla di ciò che mi veniva richiesto. Mia madre raccontava che stavo seduto davanti al quaderno a canticchiare fra me e mi tappavo le orecchie per non sentire quello che diceva. A scuola il maestro mi faceva mettere in un banco in fondo, dietro agli altri, e ogni tanto mi si avvicinava: “Allora Ivan” diceva “hai deciso di lavorare oggi? Perché se hai deciso di farlo ti farò sedere alla cattedra con me per tutta la settimana, così tutti potranno vedere quello che sai fare se vuoi.”
Ricordo poco altro di lui, se non il suo aspetto fisico: era un omone gigantesco, con una gran barba rossa e mani enormi che si abbassavano con la stessa facilità sui banchi di chi disturbava e sulla testa dei compagni per scompigliargli i capelli con risate fragorose.
Non so perché me la presi tanto quando l’anno dopo realizzai che non era più lui il mio maestro e che al suo posto ci sarebbe stata una donnina minuta e dolce dolce, che mi chiamava “Ivan il terribile”. Ricordo che non volli più andare a scuola per giorni e che quando mia madre cominciò a portarmici lei, non facevo che correre nella sua aula e chiedergli “Posso sedermi là in fondo signor maestro?”
Incominciò a venire a casa il sabato pomeriggio per darmi ripetizioni: “Ricorda il patto Ivan, tu stai con la maestra Anita e fai quello che ti chiede, e io vengo da te il sabato per farti studiare così l’anno prossimo torni con me.”
Diedi l’esame a giugno e ce la feci. Poi lui fu investito da una macchina davanti alla scuola. All’ospedale stette per tre settimane, in coma. Una volta che andai a vederlo dietro al vetro della rianimazione quasi non lo riconoscevo: gli avevano tagliato la barba e pareva più piccolo, sotto il lenzuolo. Fu allora che cominciai a pensare che le persone non sono qualcosa di veramente definito, ma sono come le vediamo noi; e noi le vediamo diversamente a seconda degli eventi. Prenda il maestro Fanti, ad esempio: com’era veramente? Era l’uomo forte e allegro che avevo conosciuto o quello smagrito e assente che avevo visto dietro a quel vetro? E se sono gli eventi che ci fanno essere come siamo, chi può dire cosa saremo e come ci comporteremo nel futuro? Forse dipende tutto dalla gravità di ciò che ci accade, oppure gli stessi fatti hanno effetti diversi sulle persone a seconda di come sono ed è già tutto scritto rispetto alle risorse che hai, per cui se le conoscessi potresti dire “ecco, questa cosa che mi è successa mi trasformerà così perché solo così saprò reagire, e quest’altra è meglio che la eviti perché so che non sarei in grado di impedire che mi danneggi…”.
Oppure esiste un nucleo, anche solo un piccolo nucleo dentro di noi che rimane immutato, che ha quell’esatto colore, quella consistenza, quell’aspetto, che è veramente inconfondibile per ognuno e che per quante cose accadano non muta, non si deforma, non si spegne?
Lei sa dirmi, dottoressa, se arriverà mai un momento nella vita in cui si potrà riuscire a vederlo, se c’è, e a sentirselo muovere dentro con forza, come si sente il cuore che batte e il respiro che esce?