
numero collana
Vinicio Corgnali prese la pistola dal tavolo e la infilò in bocca.

2020
170
978-88-6810-431-3
14,00
Si
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Sinossi
Friuli 1953. Trieste italiana è un urlo parossistico, ormai. Vinicio Corgnali, ex partigiano e poliziotto fallito, è richiamato in servizio per riportare a casa una squadra di calcio in ostaggio degli Jugoslavi che non accettano i confini imposti dai trattati. Altri fatti accadono. Un enorme rubino viene rubato dalla reliquia di Ermacora, primo patriarca di Aquileia. Qualcuno ha ucciso la baronessa Filomena De Vincentiis, importante imprenditrice e grande strozzina. Per risolvere questi e altri misteri, il vice ispettore Corgnali deve ripensare la sua guerra partigiana. Tre donne se ne contendono il cuore. O il suo letto. E c’è un’orsa che ricompare.
Primo capitolo
La squadra di calcio
Vinicio Corgnali prese la pistola dal tavolo e la infilò in bocca. La ferita alla testa pulsava feroce; la mano sinistra aveva tremato e aveva fatto cadere sul piatto il bicchiere di vino rosso. Andava avanti solo a vino ormai; aveva smesso di mangiare: vomitava ogni boccone che infilava nello stomaco. Allentò la tensione sulle spalle con dei piccoli movimenti rotatori; alzò la mano sinistra dal tavolo e l’appoggiò al calcio della pistola: non tremava più; sbloccò la sicura e armò il cane. Aveva sentito il clic della molla alzare la pallottola dal caricatore facendola scivolare nel carrello. Si concentrò strizzando gli occhi e buttando fuori il fiato dal naso.
Il mirino aveva graffiato il palato e toccava la laringe: gli occhi gli lacrimarono nello sforzo di trattenere i conati. Aprì la bocca e dopo un lungo respiro fece combaciare meglio le guance sulla canna.
Anni prima i titini gli avevano regalato un ufficiale tedesco e la sua Walther. Accadeva abbastanza di frequente in quei mesi del 1945. Corgnali lo voleva: aveva bruciato le quattro case di un paesetto lì vicino e ammazzato i pochi abitanti, fucilandoli lungo il muro della chiesa. Quando era arrivato, con quelli della Osoppo, il macello era già successo, i corpi giacevano per terra, alcuni ancora sussultavano negli spasmi della morte, e l’ufficiale, un giovanissimo sottotenente, era riuscito a scappare. Solo che aveva sbagliato sentiero, sulle montagne della Carnia, ed era andato a finire nelle mani dei titini. Lui lo avevano lasciato per ultimo in modo che vedesse morire i suoi e i titini sapevano essere molto cattivi in quelle cose.
Quando Corgnali li aveva raggiunti, i titini si stavano divertendo un po’. L’ufficiale era tutto nudo e i cani lo stavano azzannando alle gambe: volevano il suo coso. Lui cercava di proteggerlo con le mani, mentre i cani si buttavano sulle braccia per aprirsi un varco. Urlava di dolore e di paura.
Glielo consegnarono senza tante storie: ne avevano fin troppi ed era un problema smaltirli tutti.
Per la pistola, al contrario, dovette pagare una bella somma in dollari americani. I titini erano furbi e accettavano solo quelli. Le pistole erano due, in realtà, perché c’era anche una Luger nel prezzo, ma i titini avevano fatto finta di dimenticarla.
Corgnali era arrivato in quella baita, un fienile usato qualche volta da quelli del paese, scappando da Roma. C’era anche una fontana per le vacche, lì vicino.
Con il pollice accarezzò il grilletto: era morbido. Curava la pistola in modo ossessivo e non l’avrebbe tradito.
Si dondolò un po’ sulla sedia avanti e indietro: la parete alle sue spalle avrebbe bloccato la caduta lasciandolo in una posizione composta. Una frazione di secondo e tutto sarebbe finito.
****
La sentì soffiare cauta. Non era sola, questa volta. Due cuccioli si muovevano, attenti, tra i pungitopo e i ginepri. Corgnali tese l’orecchio, si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra: aveva la pistola ancora in bocca. Se la sfilò, si sentiva ridicolo adesso. “Dio mio, quanto è magra la mia orsa”, constatò. La luna era troppo luminosa e lei si teneva nascosta tra i castagni e le querce. “Dovrà uscire, però, se vuole mangiare e adesso ha pure i due cuccioli”. Poi udì un altro tramestio: il terzo cucciolo. L’orsa era riuscita a superare l’inverno con tre cuccioli: incredibile. Si allontanò dalla finestra e appoggiò la pistola sul tavolo accanto alla scacchiera. Ritornò alla finestra: l’avrebbe fatto più tardi, non c’era fretta; aveva molto tempo a disposizione. L’orsa era nervosa. Muoveva la testa, ciondolandola da destra a sinistra. Provava ad avanzare, ma si fermava subito e si ritraeva nella sicurezza del bosco. I grugniti dei piccoli erano più insistenti e il soffiare dell’orsa più nervoso. C’era troppa luce sul prato, eppure doveva uscire dal bosco se voleva dar da mangiare ai piccoli. L’erba era già cresciuta rigogliosa ed erano già spuntati i bucaneve, le primule e le viole nonostante alcune chiazze di neve sui bordi verso la vallata Nell’orto c’erano ancora alcuni cavoli e qualche patata. Gli alberi di mele selvatiche e i prugnoli avevano già le gemme nuove. Non la vedeva più. Poi, la intravide di nuovo.
L’autunno precedente se l’era trovata davanti mentre raccoglieva le castagne. Proveniva dalla Slovenia, aveva oltrepassato le montagne. Non aveva intenzioni bellicose, voleva solo le castagne per prepararsi all’inverno. Sicuramente, allora, era già incinta, adesso ne era sicuro, eppure si muoveva elegante, ciondolando la testa, alzando le zampe anteriori, prima una poi l’altra, in una specie di danza, e lo guardava con gli occhi buoni e molto attenti. Solo ogni tanto piegava la testa di lato e apriva la bocca, muovendo le labbra in una specie di sorriso che mostrava la forte dentatura.
Il vento aveva fatto cadere tutti i ricci rimasti e li aveva sparpagliati sull’erba del sottobosco. Anche Corgnali aveva bisogno della sua scorta invernale di castagne. Si erano studiati a lungo, come se ognuno aspettasse la mossa dell’altro. Poi Corgnali si mise a gridare, ad agitare le braccia e a scalciare come un matto. L’orsa si era immobilizzata. “Adesso mi attacca”, pensò. Invece, l’orsa aveva sbuffato innervosita e di corsa si era nascosta nel bosco. Corgnali aveva raccolto quanti più ricci poteva e ne aveva lasciati ancora diversi per l’orsa. Era il suo patto: puoi venire a mangiarli, se vuoi. A notte fonda fu svegliato dall’orsa. Il chiarore delle stelle e di una luna pallidissima e un po’ sporca stagliava la sua massa enorme in mezzo al prato. Sbuffava e grugniva nervosa: non era così semplice aprire i ricci.
Quella notte, tuttavia, doveva di nuovo scendere fino al prato se voleva dare da mangiare ai cuccioli.
Dopo un po’, Corgnali sentì di nuovo il rumore dei rami spezzati: in fila indiana, prima l’orsa e dietro i tre cuccioli, si diressero verso il prato. La luna adesso era ancora più luminosa e, mentre i cuccioli si stavano abbuffando, la madre muoveva la testa, le orecchie ritte, pronta a captare eventuali pericoli. Tutto era calmo. Solo giù nella valle si udiva il latrato di un cane che aveva annusato l’odore dell’orsa. Finalmente, anche la madre mise giù il muso e iniziò a brucare l’erba con dei forti singulti. Con una zampata aveva aperto una zolla e chiamato i cuccioli. Corgnali li vedeva bene ora: restavano fermi, perplessi. Poi affondarono i loro piccoli musi e subito li tirarono su pieni di lombrichi; gli stavano rubando le esche per le trote. Lentamente la madre era arrivata all’orto: aveva sentito l’odore delle patate. Con gli unghioni le aveva dissotterrate, i cuccioli si erano precipitati golosi e le stavano divorando ingordi. Nessuno dei quattro voleva i cavoli.
Di colpo l’orsa alzò la testa, grugnì e di corsa si infilò nel bosco seguita dai piccoli, lasciando le patate sul campo. Corgnali li osservò perplesso. Poi udì il motore di una macchina che saliva verso il fienile; le ruote mordevano la pietraia, non riuscivano a fare presa e slittavano. Dopo un po’, un paio di fari illuminò gli alberi e subito dopo il prato. Sorpreso, accese la lampada dell’ingresso e, tenendo la porta aperta, uscì sulla veranda di legno.
Primo Biasutti, molto elegante nella divisa da poliziotto, scese dall’Alfa Romeo con passo elastico e si diresse verso Corgnali con un ampio sorriso. Corgnali aveva chiuso la porta e lo aspettava sotto la tettoia. Biasutti non si scoraggiò, allargò le braccia con un gesto esagerato e lo avvolse nella sua acqua di colonia Victor. Corgnali se lo ricordava bello e tale era rimasto anche adesso dopo tutti quegli anni trascorsi in montagna. Fronte alta, occhi grandi e luminosi, i capelli tirati indietro a piccole onde. Sembrava avesse un nuovo atteggiamento, più arrogante, e Corgnali ne rimase sorpreso.
— È un’ora infame, lo so — disse per nulla dispiaciuto, squadrandolo con aria critica. — Non ti ho svegliato, mi sembra — concluse. — Mi fai entrare? È una cosa seria. — E si diresse verso la porta di ingresso.
Corgnali non accennava a spostarsi. Primo lo prese per le spalle con le sue manone da contadino, poi lo guardò attentamente: non gli piacque quello che vedeva. I pantaloni di Corgnali pendevano dai fianchi magri, la camicia puzzava di sudore acido e di vino, i capelli erano tutti arruffati e la faccia era smunta e scavata. Lo scansò di lato ed entrò in casa.
L’odore di chiuso, di polvere stantia, di piatti non lavati, di vestiti usati troppo e sudati, di disordine, prendeva alla gola.
— Con quella non vai da nessuna parte — gli disse guardando la pistola. Poi vide la scacchiera.
— Be’, per lo meno giochi a scacchi. È una partita di Lasker, vero? — aggiunse. Ma non era una domanda: avevano trascorso nottate insieme, su in montagna, a giocare a scacchi. Biasutti prese una sedia e gli fece cenno di sedersi. Corgnali ubbidì.
— Ti porto a Udine. Il questore deve risolvere una brutta grana. La Libertas di Prossenicco è andata a giocare di là con quelli del Bergogna. Aveva la propusnica per i dieci chilometri e invece la polizia jugoslava ha arrestato la squadra per sconfinamento illecito e l’ha portata a Caporetto.
— E io che c’entro? — rispose Corgnali. Risposta stupida: non lo avrebbe cercato se non c’entrava in qualche modo nella questione.
— Dragan Debelak: li ha arrestati e non li vuole restituire.
— Dragan?
— Sì, proprio lui.
— Non capisco perché io; lo conosci anche tu. — Corgnali adesso era guardingo: c’era qualcosa che gli sfuggiva.
— Non è la stessa cosa — insistette Primo. — Voi due eravate amici. Non ti avrebbe dato il tedesco, altrimenti.
— Dragan me lo ha fatto pagare, quel tedesco, e con tanti dollari. Non c’entra niente l’amicizia. Anzi, mi deve ancora una Luger che era compresa nel prezzo.
— Ottima occasione, allora, per andarci.
— Smettila. Dimmi perché sei venuto e che cosa vuoi realmente. E non mi dire che sono l’unico in grado di risolvere questo casino perché non ci credo.
— Vinicio, scendi a Udine. Se il questore non ti convince, ti riporto qui e non se ne parla più. Troverà un’altra soluzione — propose Primo.
Vinicio iniziò a muovere la testa come la sua orsa: destra, sinistra; sinistra, destra: dubbioso, indeciso. C’era qualcosa che lo spingeva ad accettare e qualcos’altro che, al contrario, gli suggeriva di rifiutare. Si guardò intorno e vide la stanza per quello che era realmente: un fienile riadattato alla bell’e meglio senza acqua né luce elettrica. E vide soprattutto se stesso: la barba lunga e arruffata, i vestiti stazzonati. Da quanto non si lavava a dovere? Mangiava poco e male e beveva troppo vino. Poi, guardò la pistola sul tavolo.
In fondo, non gli costava nulla accettare, anche se sapeva che il questore gli avrebbe raccontato una storia più ingarbugliata di quella appena sentita. Poteva sempre rifiutare, ritornare nel fienile e farla finita una volta per tutte.
— Se il questore non mi convince, tu mi riporti qua. Subito! — disse.
— Ma certo — gli rispose Primo, bloccandogli ogni altro dubbio. — Tu sai che io mantengo sempre le promesse.
— Mi devo lavare — si arrese Vinicio.
— Ho già pensato a tutto io — lo anticipò Primo. — Passiamo per casa mia, ti fai una doccia, ti vesti bene e poi andiamo dal questore.
Non c’era altro da aggiungere.
Prima di uscire, mentre Vinicio teneva già aperto il battente della porta, Primo guardò la partita sulla scacchiera.
— Tarrasch contro Lasker, Monaco, 1908, quarta partita — e mosse il pedone bianco in “b3”. Vinicio lo guardò sbalordito.
— Come ai vecchi tempi — aggiunse, ritornando al tavolo, e mosse il pedone nero in “a4”. Uscirono insieme, Vinicio chiuse la porta dietro di sé e salì in macchina.
Arrivarono a Udine da Porta Villalta, presero Viale Ledra e arrivarono all’Ossario. Vide Eleonora, sul manifesto enorme di un film in costume, con una scollatura profondissima sulla tunica trasparente. Eleonora Del Drago si faceva chiamare, adesso. Arrivarono in centro vicino al Duomo. Scesero dalla macchina e salirono al quarto piano. Primo aprì la porta di casa, accese le luci e si diresse verso la doccia.
— Eri sicuro che avrei accettato — constatò Vinicio. Asciugamani e accappatoio erano già pronti. La biancheria era sulla sedia. Su un gancio era appeso un vestito di ottima fattura, scarpe nere, calzini e cravatta in tinta. Si fece la barba, si lavò, si asciugò e si vestì. Aprì l’armadietto del bagno e si trovò davanti agli occhi una batteria di profumi, acque di colonia e creme varie. Lo intrigò la confezione del Pino Silvestre della Vidal: era particolare quella specie di pino in vetro sfaccettato chiuso da una specie di pigna. Lo aprì, il profumo sapeva di buono e di fresco. Se ne mise alcune gocce sul viso.
— Mangiamo dal questore — disse Primo, appena lo vide. — Ci sta aspettando.
Presero l’ascensore e Vinicio si guardò nello specchio: non era così male tirato a lucido. La magrezza e le occhiaie rendevano lo sguardo più profondo e misterioso. Anche l’amico lo rimirava compiaciuto.
— Se fossi frocio ti porterei a letto — sogghignò voluttuoso. — La dieta in montagna ti ha fatto bene. Mi eccita il profumo del dopobarba — e tirò fuori la lingua per baciarlo in bocca.
— Stammi lontano, porco — rise di cuore Vinicio, per la prima volta dopo anni. — Com’è che in bagno hai una intera profumeria?
— Caro mio — gli fece Primo, con aria di chi la sa lunga, — le donne vogliono l’uomo pulito e profumato, altrimenti si schifano e non ti guardano. Non siamo più in montagna, come allora: adesso tutto è diverso.
Scesero in strada e si diressero verso Piazza della Libertà, ai piedi del castello, l’antica Piazza del Vino, con le due statue al centro e con i mori che battevano le ore sulla campana come a Venezia in Piazza San Marco. Il questore abitava sopra la piazza e le finestre guardavano l’angelo segnavento in cima al campanile, nel punto più alto del colle, voluto da Attila per godersi lo spettacolo di Aquileia in fiamme.
Il questore, Vincenzo Talarico, aprì la porta, li accompagnò nell’ampia cucina dove era stato apparecchiato per tre e servì a tavola. Riempì i bicchieri di vino rosso. Corgnali gli chiese dell’acqua. Il questore lasciò che Vinicio mangiasse di gusto. Lui e Biasutti si limitarono ad assaggiare qualcosa per fargli compagnia. Poi ascoltò in silenzio Biasutti, quindi iniziò a parlare.
— Che idea si è fatta? — chiese a Corgnali.
Vincenzo Talarico era salito da alcuni anni a Udine lasciando la sua Calabria. Veniva da una famiglia poverissima che aveva fatto sacrifici immensi per farlo studiare. Aveva fatto la gavetta contro i banditi della Sila. Gente che ti ammazzava per una pecora rubata. Faide familiari che duravano secoli per un pezzo di terra contestato. Era una persona che parlava poco e sapeva ascoltare. Non aveva i problemi di Gorizia e Trieste, ancora divise tra i titini e gli alleati. Tuttavia, doveva affrontare problemi altrettanto seri. Udine doveva rappresentare il processo di normalizzazione del nuovo Stato repubblicano dopo i processi, iniziati al momento della Liberazione, per i crimini commessi dai fascisti. Il questore Talarico sapeva di trovarsi di fronte a un quadro a dir poco aggrovigliato e molto scivoloso. Gli occhi di tutti erano puntati su di lui: il suo lavoro a Udine era diventato il banco di prova che avrebbe avuto ripercussioni su Gorizia e Trieste, una volta chiarito il problema dei confini. Su Trieste, soprattutto, la cui italianità aveva assunto un significato risorgimentale, simile a quello della Prima Guerra Mondiale. La litigiosità con la Jugoslavia aveva assunto aspetti parossistici e ogni occasione era un pretesto per rivendicarne l’appartenenza.
Vinicio Corgnali si pulì la bocca con il tovagliolo e bevve il bicchiere d’acqua prima di rispondere. Non aveva toccato una goccia di vino e le mani gli tremavano un po’.
— Signor questore, siamo sinceri: lei mi ha chiamato non perché conosco Dragan, ma perché è meglio se la squadra viene riportata a casa da un poliziotto che non è un poliziotto.
Il questore lo osservò con interesse. Aveva notato che non aveva bevuto il vino e che le mani erano malferme.
— Ha ragione — concluse dopo un po’. — Mi piace la sua definizione: un poliziotto non poliziotto. Non avrà, infatti, alcun incarico formale. E se qualcosa dovesse andare storto dovrà sbrogliarsela da solo.
— Signor questore, una squadra di calcio sequestrata dai titini può fare saltare diverse poltrone e non solo la sua. Di sicuro, lei ha studiato ogni particolare ed è convinto che io abbia buone possibilità di riportare la squadra a casa. Quindi mi spieghi: perché per Dragan è meglio restituirci i ragazzi?
— Dragan Debelak è stato incriminato dalla Corte d’Assise di Udine per l’omicidio di alcuni carabinieri in una cava verso Tarvisio, commesso poco prima del cessate il fuoco. Gli inglesi stanno facendo il diavolo a quattro per farselo dare dai titini che, invece, sembrano non avere alcuna intenzione di consegnarlo.
— Capisco. È la zona dove abbiamo agito anche noi e Primo ne sa qualcosa. Mi meraviglia che gli inglesi siano così zelanti. Sono sempre stati molto restii a innervosire i titini. Comunque la domanda è un’altra: perché la squadra di calcio?
— Appunto. Questa è la vera domanda. Diverse indicazioni che ho ricevuto mi fanno pensare che i titini stiano cambiando idea e che vogliano consegnare Debelak agli inglesi. Dragan ha in mano qualcosa che preoccupa i titini e i titini se ne vogliono sbarazzare. La squadra di calcio è il suo salvacondotto. Dragan è stato furbo: ha messo nello stesso mazzo la squadra di calcio e l’accusa per omicidio, bloccando ogni strada ufficiale. Tito ha già risposto che per ora non intende consegnare Debelak. Per ora, appunto. Ma domani? A nessuno dei due interessa la nostra squadretta di calcio, mi creda. E quindi non pensi a poltrone che saltano. Ci sono squadre italiane ben più importanti che giocano regolarmente nel campionato jugoslavo. Vogliamo la Libertas perché abbiamo fretta di chiudere. Se Debelak obbliga i suoi a rompere la trattativa si può immaginare le conseguenze su Trieste e Gorizia. Quello che ha fatto è del tutto illegale: lo sa Debelak, ma soprattutto lo sa Tito.