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numero collana


In cella eravamo sempre stati quattro, dopo un po' ti abitui, riconosci la presenza dei tuoi coinquilini, sei indifferente al loro disordine, alla loro puzza e al tanfo della loro merda. Credetemi le gabbie puzzano di un sacco di cose, di paura, di sconfitta e qualche volta di pentimento. Ma all'odore di merda non ti arrendi.

2023

210

978-88-6810-557-0

14,00

Si


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Sinossi

Bologna è imbiancata di neve sotto le ultime gelate di marzo. Il commissario Gargano ancora persevera nella folle convivenza con Lello, Ciccio e Riccardo, i tre universitari che erano alla disperata ricerca di un coinquilino pagante. Saranno proprio loro a trovare il cadavere di un senzatetto nei pressi di Villa Spada. Dietro quella morte c'è molto di più però, un omicidio volontario, un passato turbolento e un mistero irrisolto che tormenterà il commissario per giorni. L'aiuto di una giornalista lo porterà a scavare nella giusta direzione fino a mettere a repentaglio la propria vita. Nel frattempo c'è anche altro a cui pensare però, il Ciccio è stato licenziato dal supermercato. Accusato di furto sul luogo di lavoro continua a dichiararsi innocente e Gargano dovrà fare tutto il possibile per scagionarlo. Spaccati della vita universitaria, comicità cinica e simboli della città studentesca saranno la cornice perfetta per le vicende criminali affrontate dal commissario Gargano. Il nostro protagonista indiscusso, divorziato, solo e randagio convive con tre anomali universitari dalle abitudini discutibili.

L'autore

Primo capitolo

1

In cella eravamo sempre stati quattro, dopo un po’ ti abitui, riconosci la presenza dei tuoi coinquilini, sei indifferente al loro disordine, alla loro puzza e al tanfo della loro merda. Credetemi, le gabbie puzzano di un sacco di cose: di paura, di sconfitta e qualche volta di pentimento. Ma all’odore di merda non ti arrendi. Nel letto di sopra avevo lo Stagnola, non era male, si muoveva poco di notte. In fondo era il classico bravo ragazzo mangiato dall’eroina, entrò nel giro dello spaccio solo per potersela permettere, beccato subito, troppo buono e troppo fesso per cavarsela in quell’ambiente. Gli diedero due anni col rito abbreviato, ed eccolo qui. A lui il carcere stava facendo bene. Esclusi i primi mesi di astinenza, in cui credevo mi morisse in cella per quanto soffriva, col passare dei giorni lo vedevo sempre meglio. Il suo corpo si ripulì pian piano, il viso si fece carnoso e gli occhi più fini. Il colore della pelle tornava a essere sano, perdendo quel giallognolo ingrigito tipico del tossico. Data la noia più totale si dedicò anima, mente e corpo alla palestra e stava persino mettendo su un bel fisico. Forse ce l’avrebbe fatta a stare lontano da quella roba una volta libero, forse no, non lo so e forse non lo saprò. Esce tra un paio di mesi e s’è messo in testa che vuole diventare un personal trainer. I giovani e i loro sogni, tutte cazzate, non hanno idea di quanto sia dura la vita lì fuori, di quanto la gente sia stronza, figuriamoci dopo che sei uscito di prigione. Per ora lo lascio sognare, gli fa bene sognare allo Stagnola, perché quando smetterà di farlo ci ricascherà, e magari, prima o poi, lo troveranno morto in overdose per i corridoi di un palazzo abbandonato, con la siringa nel braccio e la faccia da scemo. Speriamo di no, dopo tutto questo tempo ci tengo a lui.
A sinistra in basso dormiva il Taleggio. Lo chiamavamo così perché emanava un fetore di piedi formaggini che appestava tutta l’ala est. Noi della camerata ormai c’eravamo assuefatti a quel tanfo, tanto da restarne indifferenti, se non per qualche giorno d’estate particolarmente caldo che contribuiva a sprigionare il peggio di quell’essenza putrida. Tuttavia non era questo il motivo del suo soggiorno forzato. Taleggio non era un vero criminale. Assassino sì, diciotto anni per omicidio volontario sì, colpevole sì, ma criminale no. Aveva beccato la moglie in un momento sbagliato, diciamo affaccendata con un pover’uomo che non sapeva di starsi giocando la vita per una scopata con una donna dalla fede al dito. Entrò a giochi finiti e mentre il nostro sfortunato don Giovanni prendeva le mutande, il Taleggio prendeva la lupara. Il resto è storia. Un raptus d’ira, uno sprazzo di follia animale, una stronzata galattica, ma in cuor suo Taleggio sapeva di non avere tutta la colpa dell’accaduto.
Garantisco io, non era un criminale. Parola di galeotto. Faceva il caffè meglio di tutti il Taleggio e ogni settimana condivideva il cibo che la mamma gli faceva arrivare da fuori. Certe cene da paura, banchetti intramontabili e risate clandestine finché Giorgino, la guardia, non spegneva le luci. Parmigiana di melanzane, lasagne, cotolette: odori e sapori che a occhi chiusi ti facevano evadere in una boccata di libertà lunga giusto il tempo d’un boccone. Che orgasmi culinari. Il cibo è la cosa più erotica che ci sia rimasta qui dentro. Sempre se non ti garba la zucchina ovviamente.
Da una settimanella ci godevamo il lusso di avere una branda sfitta. Fino a qualche giorno prima quel materasso consunto alla mia sinistra era abusivamente occupato da Marley, un ragazzo qualunque che continuava a fare dentro e fuori perché combinava stronzate durante la libertà vigilata e nella vita in generale. Non cattivo, ma ingenuo e incautamente folle. Una vita di leggerezze. L’ultima volta aveva spiegato che non era colpa sua se era finito dentro per un paio di mesi. Da lì cominciò una di quelle magiche storie ai confini della realtà, non potevi sapere se fosse la verità, ma le romanzava così bene da sembrare un avo scultore di miti e leggende che avrebbero abitato la prigione per secoli. Era sempre un piacere sapere del suo imminente arrivo, poiché di certo custodiva con sé una di quelle comiche favole. L’ultima perla che ci lasciò recitava più o meno così. Faceva l’idraulico e durante un domicilio restò bloccato in ascensore con uno studentello di lettere. Un po’ per noia, claustrofobia, un po’ per smorzare l’ansia, un po’ perché i coglioni viaggiano sempre in coppia, ebbero la brillante idea di fumare un cannone nell’attesa che qualcuno venisse ad aiutarli. A momenti la vecchia del terzo piano chiamava pure l’aeronautica. Il suo appuntamento televisivo quotidiano con La signora in giallo fu interrotto da alcune urla provenienti dalla tromba dell’ascensore, seguite da svariati minuti di silenzio. Infine vide le prime sbavature di fumo che iniziarono a trapelare sul pianerottolo dalla fessura delle porte di metallo. Non c’era tempo da perdere, cosa avrebbe fatto Jessica Fletcher? Gridò all’incendio per tutto il palazzo, sbraitava come un marinaio di vedetta che scorge la terra dopo anni. Svegliò cani, gatti, bambini e Carletto, la guardia giurata del piano di sopra eroicamente sopravvissuto a un soporifero turno di notte al supermercato. Carletto si limitò a rimboccare il cuscino col sorriso di un bambino che torna a dormire. Di lì a pochi minuti arrivarono la municipale, i vigili del fuoco e l’ambulanza, un concerto di sirene che pareva di essere a Los Angeles. Le porte dell’ascensore bloccato a mezzo piano furono forzate da due baldi giovani, tutti trattennero il respiro aspettandosi fiamme e feriti da soccorrere. Il vuoto d’aria lanciò una zaffata del fumo denso accumulatosi nella cabina che investì tutti i presenti sballandoli per un attimo. Dissolta la coltre si ritrovarono davanti Marley e un giovane letterato sullo stile Bob Dylan, sorridenti e con gli occhi lucidi. Perlomeno erano già riusciti a finire di fumare. Per discolparsi tentarono d’iniziare con un ragionevole “Non è come sembra...”, invece era proprio come sembrava: violazione della libertà vigilata, procurato allarme, recidiva, cazzi e mazzi, insomma Marley fattelo un giro dentro a salutare qualche amico. Il giro se l’era fatto, dentro e fuori, come una sveltina, due risate e qualche saluto, alla prossima Marley, speriamo di no, bella storia però.
Sdraiato lì al mio posto, invece, c’ero io. Al tempo ero conosciuto come Pirandello, o almeno gli altri detenuti mi chiamavano così. Molto piacere.